Se si parla di inquietudine non sono seconda a nessuno.
Oggi, leggendo distrattamente su internet un articolo che
parlava di trekking, mi è saltata agli occhi una frase di Paolo Rumiz che mi ha fatto risuonare dentro qualcosa di forte.
Grazie a google sono riuscita in pochi minuti a risalire alla citazione
completa, tratta dal libro “La leggenda dei monti naviganti”, il libro in cui
Rumiz racconta il suo lunghissimo viaggio svolto con ogni mezzo, primo tra
tutti le sue gambe, attraverso le Alpi e gli Appennini.
Eccola: “A un tratto(…)voglio andarmene, subito e non
importa dove. E’ una sindrome che conosco; gli ornitologi la chiamano “sindrome
da inquietudine migratoria”. Succede quando gli uccelli sentono tutti insieme l’istinto
di cambiare latitudine, e allora cominciano a far rifornimento(…)a scaldare
festosamente i motori. Nei cambi di stagione capita anche alle anatre da
cortile, quando hanno un improvviso attacco di claustrofobia vogliono andarsene, contro ogni logica,
sapendo di abbandonare un tetto sicuro. Il
richiamo è forte, via dalla pianura, via dai rettilinei”.
Non sapevo dell’esistenza di questa curiosa sindrome, ma mi
è parsa una spiegazione plausibile a tante sensazioni che ho vissuto, e che a
volte mi è parso di intuire negli altri.
Già, perché se gli etologi hanno descritto nei volatili
quell’improvviso stato di eccitazione irrequietezza che li spinge a “cambiare
aria”, perché non dovrebbe esserne rimasta una memoria primordiale anche in noi mammiferi
bipedi? E se sto dicendo un’eresia che
farebbe saltare sulla sedia un evoluzionista, poco importa, il paragone e lo
stato d’animo che evoca per me sono azzeccatissimi. In fatto di viaggi e di
esplorazioni Rumiz è un maestro, e credo che questa sua frase sia una verità in
cui si possono riconoscere tutti i viaggiatori. La frase si adatta moltissimo
anche ai viaggi a piedi, ai trekking, ai cammini in cui ci sei solo tu con la
forza delle tue gambe e della tua mente, ti metti in cammino perché senti che è
il momento di farlo.
Quante volte ho provato quel tumulto che mi spinge a
partire, a progettare un viaggio, grande o piccolo, anche solo di una giornata
in mancanza di meglio… Un improvviso desiderio di fuga verso orizzonti più
ampi, verso qualcosa di meno conosciuto, che porta con sé l’entusiasmo dei
preparativi, la progettazione della fuga, il gusto dell’imprevisto, degli
incontri on the road. E quante volte ho sentito di essere veramente me stessa
nella dimensione del viaggio, per poi spegnermi lentamente nello sforzo di
adattarmi alla dimensione della quotidianità.
La sindrome di inquietudine migratoria per me è anche la
metafora dell’irrequietezza che mi spinge a fuggire dalla sicurezza per
buttarmi in una nuova avventura, capace di darmi entusiasmo e adrenalina. Non
mi capita mai in campo affettivo, perché sono portata da sempre a cercare un
nido sereno e autentico in cui stare, tentando magari di coinvolgere l’altro
nelle mie sindromi migratorie.
Ma in
campo lavorativo mi capita eccome! Con buona pace dei miei, che negli anni
hanno rinunciato a predicare l’importanza di un porto sicuro. Ormai capisco
quando inizio a fremere, perché quello che faccio mi sta stretto, i rapporti
con i capi e con i vari interlocutori mi diventano insopportabili, e allora
inizio a scaldare le ali, a preparare la rotta e via…alla prima possibilità
volo via leggera e mi butto a capofitto in una nuova sfida, desiderosa di
imparare. Come quelle anatre da cortile della citazione, sento la claustrofobia
del tetto sicuro e desidero abbandonarlo. C’è da dire che in quest’epoca di
precariato a vita il porto sicuro non l’ho mai avuto (mi prospettavano sempre e
solo il miraggio…) e quindi spiccare il volo non è mai troppo difficile.
Dedicato a tutti i precari come me.
Dedicato a tutti i precari come me.
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