lunedì 7 maggio 2012

Inquietudine migratoria


Se si parla di inquietudine non sono seconda a nessuno.

Oggi, leggendo distrattamente su internet un articolo che parlava di trekking, mi è saltata agli occhi una frase di Paolo Rumiz che mi  ha fatto risuonare dentro qualcosa di forte. Grazie a google sono riuscita in pochi minuti a risalire alla citazione completa, tratta dal libro “La leggenda dei monti naviganti”, il libro in cui Rumiz racconta il suo lunghissimo viaggio svolto con ogni mezzo, primo tra tutti le sue gambe, attraverso le Alpi e gli Appennini.

Eccola:  “A un tratto(…)voglio andarmene, subito e non importa dove. E’ una sindrome che conosco; gli ornitologi la chiamano “sindrome da inquietudine migratoria”. Succede quando gli uccelli sentono tutti insieme l’istinto di cambiare latitudine, e allora cominciano a far rifornimento(…)a scaldare festosamente i motori. Nei cambi di stagione capita anche alle anatre da cortile, quando hanno un improvviso attacco di claustrofobia  vogliono andarsene, contro ogni logica, sapendo di abbandonare un tetto sicuro.  Il richiamo è forte, via dalla pianura, via dai rettilinei”.

Non sapevo dell’esistenza di questa curiosa sindrome, ma mi è parsa una spiegazione plausibile a tante sensazioni che ho vissuto, e che a volte mi è parso di intuire negli altri. 

Già, perché se gli etologi hanno descritto nei volatili quell’improvviso stato di eccitazione irrequietezza che li spinge a “cambiare aria”, perché non dovrebbe esserne rimasta  una memoria primordiale anche in noi mammiferi bipedi?  E se sto dicendo un’eresia che farebbe saltare sulla sedia un evoluzionista, poco importa, il paragone e lo stato d’animo che evoca per me sono azzeccatissimi. In fatto di viaggi e di esplorazioni Rumiz è un maestro, e credo che questa sua frase sia una verità in cui si possono riconoscere tutti i viaggiatori. La frase si adatta moltissimo anche ai viaggi a piedi, ai trekking, ai cammini in cui ci sei solo tu con la forza delle tue gambe e della tua mente, ti metti in cammino perché senti che è il momento di farlo. 

Quante volte ho provato quel tumulto che mi spinge a partire, a progettare un viaggio, grande o piccolo, anche solo di una giornata in mancanza di meglio… Un improvviso desiderio di fuga verso orizzonti più ampi, verso qualcosa di meno conosciuto, che porta con sé l’entusiasmo dei preparativi, la progettazione della fuga, il gusto dell’imprevisto, degli incontri on the road. E quante volte ho sentito di essere veramente me stessa nella dimensione del viaggio, per poi spegnermi lentamente nello sforzo di adattarmi alla dimensione della quotidianità.  

La sindrome di inquietudine migratoria per me è anche la metafora dell’irrequietezza che mi spinge a fuggire dalla sicurezza per buttarmi in una nuova avventura, capace di darmi entusiasmo e adrenalina. Non mi capita mai in campo affettivo, perché sono portata da sempre a cercare un nido sereno e autentico in cui stare, tentando magari di coinvolgere l’altro nelle mie sindromi migratorie.   

Ma in campo lavorativo mi capita eccome! Con buona pace dei miei, che negli anni hanno rinunciato a predicare l’importanza di un porto sicuro. Ormai capisco quando inizio a fremere, perché quello che faccio mi sta stretto, i rapporti con i capi e con i vari interlocutori mi diventano insopportabili, e allora inizio a scaldare le ali, a preparare la rotta e via…alla prima possibilità volo via leggera e mi butto a capofitto in una nuova sfida, desiderosa di imparare. Come quelle anatre da cortile della citazione, sento la claustrofobia del tetto sicuro e desidero abbandonarlo. C’è da dire che in quest’epoca di precariato a vita il porto sicuro non l’ho mai avuto (mi prospettavano sempre e solo il miraggio…) e quindi spiccare il volo non è mai troppo difficile. 
Dedicato a tutti i precari come me.

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